<p style="text-align:justify"><span style="font-size:12pt"><span style="line-height:115%"><span style="font-family:Calibri, sans-serif"><span lang="IT" style="font-family:"Times New Roman",serif"><span style="color:#111111">Nel <i>De pictura</i> Alberti insiste sull’importanza di una rappresentazione pittorica capace di creare un legame emozionale con lo spettatore; per questa ragione il pittore deve dedicarsi con zelo e industria alla riproduzione dei “moti dell’animo” delle figure dipinte: « Poi moverà l’istoria l’animo quando gli uomini ivi dipinti molto porgeranno suo proprio movimento d’animo » (Libro II, cap. 41). Leonardo da Vinci riprenderà pienamente tale attenzione empatica, al punto di attribuire alla pittura un valore filosofico proprio in virtù della sua capacità a cogliere l’interiorità delle figure, definite come « veramente compassionevoli » (<i>Manoscritto A</i>, f. 5<i>r</i>). Qualche decennio più tardi, nel pieno Cinquecento, all’interno di quell’inesausta comparazione fra le arti volta a definire il maggior prestigio della pittura o della scrittura, assistiamo ad una presenza sempre più forte, accanto alle opere d’arte, delle loro descrizioni letterarie. Chiamate anch’esse a commuovere lo spettatore, sembrano per molti versi divenire delle vere e proprie forme di <i>amplificatio</i> empatica rispetto ai <i>tableaux</i> che sono chiamate a descrivere. È infatti interessante constatare come il genere ecfrastico, lungi dal limitarsi a “narrare” l’opera, ne allarghi il raggio d’azione emozionale: in un denso gioco di specchi, lo scrittore di <i>ekphrasis</i> trasmette al lettore tanto l’emozione insita nelle figure che le emozioni che egli stesso percepisce alla vista di quelle figure. Emblematiche a tal proposito sono le <i>Stanze sopra le statue di Laocoonte, di Venere e di Apollo</i> di Aurelio Morani (1539), ove l’autore trasforma l’<i>ekphrasis</i> in un attestato di compassione personale di fronte alle sofferenze del sacerdote troiano: « </span></span><span lang="IT" style="font-family:"Times New Roman",serif">S’io veggio ‘l sasso, penso a la sua doglia; / E pensando a la doglia, penso al sasso; / […] O, se pur alma in sasso non si trova, / Come tanto martir sopra gli piova <span style="color:#111111">». Il corpo marmoreo di Laocoonte è trasfigurato dalla parola in una dimensione prettamente umana ove la <i>pietra</i>, soffrendo come fosse <i>carne</i>, spinge a pietà il suo osservatore. Lo stesso procedimento accade nelle <i>Lacrime della beata Vergine</i> di Tasso (1593), ove la descrizione letteraria del volto della Madonna dipinta è a tal punto commovente da spingere lo spettatore/lettore a « rasciugargli » le lacrime: in questa moltiplicazione dei piani di partecipazione affettiva il dolore della Vergine, da immagine e parola si fa <i>umore vitale</i>, incarnazione stessa dell’emozione. L’autore dell’<i>ekfrasis</i> diviene così una sorta di “intermediario empatico” fra dipinto e osservatore, in cui è chiamato a mettere ulteriormente in evidenza il <i>pathos</i> del quadro (vedasi, a tal proposito, la descrizione che l’Aretino fa di un <i>Cristo deriso</i> di Tiziano, in cui il dramma della scena dipinta è acuito dal lessico martirizzante della sua descrizione letteraria: « il dolore, in cui si <i>ristringe</i> la di Gesù figura, commuove a pentirsi qualunque </span>[…] gli mira le braccia <i>recise</i> <i>da la corda</i><span style="color:#111111"> »).</span></span></span></span></span></p>
<p style="text-align:justify"><span style="font-size:12pt"><span style="line-height:115%"><span style="font-family:Calibri, sans-serif"><span lang="IT" style="font-family:"Times New Roman",serif"><span style="color:#111111">Nel nostro contributo vorremmo pertanto analizzare la scrittura ecfrastica quale <i>amplificatio</i> dell’empatia nella letteratura e nella trattatistica del Quattro-Cinquecento.</span></span></span></span></span></p>
<p class="didefault" style="text-align:justify; margin-bottom:16px"> </p>